venerdì 28 novembre 2014

Sponsor ultraliberisti

L'anno scorso mi era sfuggita questa pubblicazione fatta dalla JP Morgan.
L'estratto che mi interessa segnalare, come qui rilevato dall'articolo de Il Fatto Quotidiano di Luca Pisapia, è quanto vi si legge alle pagine 12 e 13:
"At the start of the crisis, it was generally assumed that the national legacy problems were economic in nature (...) But, over time it has become clear that there are also national legacy problems of a political nature. The constitutions and political settlements in the southern periphery, put in place in the aftermath of the fall of fascism, have a number of features which appear to be unsuited to further integration in the region (UE)"
e cioè:
"Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (…) Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea".

Dunque la Costituzione italiana per JP Morgan è un ostacolo al processo di integrazione europea.
L'integrazione europea si sta misurando con i terribili dati economici inferiori in entità, nel loro disastro, solo alla seconda guerra mondiale.
Questo trattato di libero scambio qual è la UE nel fotografare i rapporti di forza tra gli Stati ambisce a realizzarne uno più grande basandosi sulla forte concorrenza tra essi e la stabilità dei prezzi.
Chi è macroeconomicamente alfabetizzato sa che il disperato perseguire la stabilità dei prezzi trova giustificazione, in un sistema capitalistico, essenzialmente nel garantire i creditori che non vedranno svalutato nel tempo il capitale prestato.
Ci sono tuttavia delle limitazioni alla libera circolazione del capitale che si manifestano con principi enunciati nella Costituzione tesi a proteggere la parte più debole della funzione di produzione, cioè il lavoro, cioè i lavoratori, in altre parole il welfare.

Con la benedizione e il patrocinio di JP Morgan (ma anche di Goldman Sachs) tutto quello che sta accadendo non è altro che uno smantellamento dello Stato sociale, attraverso le famose riforme strutturali atte a trasformare il lavoro da diritto alla dignità a merce.

Maggiordomi e traditori della Patria nelle più alte cariche dello Stato e in Parlamento hanno quasi compiuto l'opera.
Appare evidente quali siano stati e siano ancora i loro principi ispiratori,...i loro sponsor.






giovedì 20 novembre 2014

Se non c’è alternativa, non c’è politica - di Alberto Bagnai

Pubblico un interessante articolo di Alberto Bagnai pubblicato su ideecontroluce a seguito del seminario web “A quali condizioni può sopravvivere l’euro” quale momento di confronto della sinistra italiana. Un sintetico e magistrale compendio di quanto sempre sostenuto in questo blog.


Al seminario “A quali condizioni può sopravvivere l’euro” assisteva una convitata di pietra, la signora T.i.n.a. (There is no alternative). All’euro non c’è alternativa, è parso di capire da molti interventi, il che in fondo rendeva superfluo il seminario, e quindi tanto più apprezzabile il tempo impiegato (cioè, nella loro ottica, perso) dai relatori: se non c’è alternativa, non ci sono condizioni non dico da porre, ma nemmeno da analizzare.

Era al tempo stesso paradossale e ovvio che la signora Tina sedesse con noi.

Paradossale, perché il mantra che “non ci sia alternativa” è stato fatto proprio, negli ultimi tre decenni, dall’ideologia neoliberista, un’ideologia in linea di principio deprecata da tutti i partecipanti. Ovvio, perché l’euro è stato il cavallo di Troia usato da questa ideologia per radicarsi nel nostro continente. Questo, ormai, non è più lecito nasconderselo. Fatte salve le sue intenzioni, senz’altro ottime (tant’è che ci stiamo lastricando l’inferno della crisi più grave della nostra storia), per quanto attiene alla politica economica il Trattato di Maastricht è uno scampolo di paccottiglia neoliberista anni ’70: il primato delle regole sulle politiche discrezionali, la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi, il feticcio della stabilità dei prezzi, articolato sulla concezione scientificamente dubbia dell’inflazione come fenomeno puramente monetario, dalla quale consegue il principio fallimentare e antidemocratico dell’indipendenza della Banca Centrale dal potere esecutivo.

Milton Friedman reloaded.

È stato rivendicato, da alcuni partecipanti, il primato della politica, fra generali cenni di assenso, del tutto comprensibili: mai richiamo fu più appropriato! Negare alternative (cioè prosternarsi alla signora Tina) significa appunto negare la politica, e proprio a questo serve la costruzione europea così come si è andata sviluppando negli ultimi 30 anni. Non è una grande scoperta, sta nei libri di testo (Acocella, 2005) e sta nei lavori degli scienziati politici (Featherstone, 2001): il “vincolo esterno”, prima all’interno dello Sme, poi con l’entrata nell’euro, era lo strumento attraverso il quale i “tecnici” si proponevano di sconfiggere la “partitocrazia”. Questo nobile scopo presuppone uno snodo essenziale: l’esistenza di un optimum tecnico di gestione dell’economia, definibile a monte di qualsiasi dialettica politica (se posso: dialettica di classe), e anzi, da porre sapientemente “al riparo dal processo elettorale”, per usare le parole del premier diventato nel 2011 il simbolo della rivincita politica della sinistra italiana: Mario Monti (1998).

E anche qui, però, il paradosso era flagrante.

Da un lato, infatti, nel seminario il primato della politica è stato invocato per “sollevare le masse” a difesa di un progetto, quello di integrazione monetaria, il cui scopo esplicito è la negazione della politica, come ho appena ricordato e come illustro dettagliatamente in Bagnai (2014). Dall’altro, forse sarebbe il caso di ricordare sommessamente ai politici che il mondo distopico nel quale siamo condannati a vivere è frutto proprio del primato della “politica”: pare che alla sua origine vi sia il desiderio tutto politico di Mitterrand di “ingabbiare” la Germania in una unione monetaria. A che valeva l’avviso di economisti laburisti come Meade (1957) o Kaldor (1971), di economisti keynesiani come Thirlwall (1991) o Godley (1992)! Tutti indicavano che porre l’unione monetaria avanti a quella politica avrebbe compromesso l’integrazione europea. Ma le ragioni superiori della politica dovevano prevalere sulla gretta logica economica.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti, e quando dico “tutti” intendo anche gli elettori.

La domanda di D’Antoni, se sia possibile o meno l’esistenza di un partito di sinistra dentro l’euro, si risponde da sola, una volta riformulata in termini espliciti, cosa che l’intervento di Giacché ci rende particolarmente agevole: è possibile un ragionamento “di sinistra” all’interno di un irriformabile progetto di compressione salariale? Negli anni ’70, lo documentano gli atti parlamentari, Spaventa e Napolitano rispondevano di no. Ma facciamo finta che oggi i tempi siano cambiati, e che reprimere i salari sia diventato di sinistra, da quando il compagno Schröder ha deciso di farlo in Germania. Rimane il fatto che comunque questa prassi aggrava la crisi di domanda interna.

Detto in altri termini, e messe in disparte le geometrie politiche (visto che il sistema non ci consente un vero ragionamento politico), la questione si pone nei seguenti termini: se resterà al potere, nel giro di alcuni mesi l’attuale partito di maggioranza relativa dovrà scegliere fra gestire il default sul debito pubblico italiano (inevitabile conseguenza della spirale deflazionistica alla quale il vincolo monetario ci condanna), o gestire l’uscita dall’euro. Punto.

Sarebbe quindi il caso di analizzare a mente fredda costi e benefici di entrambe le opzioni, rifacendoci alla letteratura scientifica, ed evitando ragionamenti terroristici alla Oscar Giannino (cosa c’entra l’Argentina con l’Italia?). Credo sia questo il senso, assolutamente condivisibile, degli interventi di Fassina e di D’Attorre: un richiamo al principio di realtà e al senso di responsabilità dei politici, che hanno il dovere di mettere l’analisi di tutte le opzioni in campo di fronte al proprio wishful thinking. L’argomento secondo cui “non è mai successo, non si può fare” non solo è un falso storico, ma soprattutto contraddice platealmente l’invocazione del primato della politica. Invochiamola per fare la cosa giusta, cioè per aprire e discutere alternative, non quella sbagliata!

Stiamo vedendo un film già visto, del quale sono noti i due possibili epiloghi. Se la scelta sarà il default, con relativa consegna dell’Italia alla troika, difficilmente il partito al potere sopravviverà. Questo ci dice la letteratura pertinente (Bornsztein e Panizza, 2009).

Viceversa, il comunque inevitabile disfacimento del progetto antistorico nel quale siamo invischiati sarebbe solo l’ennesimo caso di scelta “irreversibile” della quale la Storia fa strame: pensiamo alla fine del gold standard nel 1931, o a quella del sistema di Bretton Woods nel 1971, o a quella dello Sme “credibile” nel 1993. Quante volte abbiamo sentito dire: “non si può, sarà una catastrofe, difenderemo il sistema a qualunque costo!”. Bene. Suggerisco allora ai politici di rileggere con me le parole con le quali Keynes descriveva la fine di uno dei tanti sistemi “irreversibili”:

Sono pochi gli inglesi che non esultano per la rottura delle nostre catene d’oro. Sentiamo di aver finalmente mano libera per fare ciò che è giusto. È finita la fase romantica, e possiamo cominciare a discutere realisticamente di quale sia la politica più opportuna. Può apparire sorprendente che un provvedimento che era stato dipinto come una catastrofe rovinosa sia stato accolto con tanto entusiasmo. Il fatto è che ci si è resi conto rapidamente dei grandi vantaggi per il commercio e per l’industria britannica derivanti dalla cessazione di ogni sforzo artificioso per mantenere la nostra valuta al di sopra del suo valore reale. (Keynes, 1931)

Da anni mi sento dire, nei dibattiti: “Io non sono un economista, ma…”. Permettetemi di ricambiare: io non sono un politico, ma, se lo fossi, preferirei gestire una situazione come quella descritta da Keynes, piuttosto che l’ennesima umiliazione inutile del nostro paese.

Buon lavoro e buona fortuna.



Bibliografia

Acocella N., 2005, La politica economica nell’era della globalizzazione, Carocci, Roma.

Bagnai, A., 2014, L’Italia può farcela – Equità, flessibilità e democrazia: strategie per vivere nella globalizzazione, Il Saggiatore, Milano.

Borensztein, E., Panizza, U., 2009, «The Costs of Sovereign Default»,  in IMF Staff Papers, vol. 56, pp. 683-741.

Featherstone K., 2001, «The Political Dynamics of the Vincolo Esterno: the Emergence of EMU and the Challenge to the European Social Model», Queen’s Papers on Europeanisation, 6, Queens University of Belfast.

Godley, W., 1992, «Maastricht and all that», London Review of Books, 14, pp. 3-4.

Kaldor, N., 1971, «The Dynamic Effects Of The Common Market», in The New Statesman, vol. 12 marzo 1971.

Keynes, J.M., 1931, «The end of the gold standard», ora in Sono un liberale?, a cura di Giorgio La Malfa, Adelphi, Milano, 2010.

Meade J., 1957, «The balance-of-payments problems of a European free-trade area», in Economic Journal, vol. 67, pp. 379-396

Monti M., 1998, Intervista sull’Italia in Europa, a cura di F. Rampini, Laterza, Roma-Bari.

Thirlwall T., 1991, «Emu is no cure for problems with the balance of payments», in Financial Times, 9 ottobre.

sabato 15 novembre 2014

Cercasi disperatamente forza politica che difenda la Costituzione

Ieri sera sono andato al dibattito di cui alla locandina che segue:


Ero curioso di conoscere, dal vivo, le idee e le intenzioni del M5S sul tema €uro e di confrontarle con quelle ascoltate il 16 febbraio scorso nella campagna elettorale delle Europee sempre in un incontro dibattito con senatori e deputati.
Prima delle elezioni europee avevo scritto questo post e subito dopo questo.
Come è cambiato il punto di vista politico sull'€uro del M5S?
In niente.
Per carità, sono riusciti ad andare oltre la copertina del libro Il Tramonto dell'Euro di Alberto Bagnai ed in effetti vedere il deputato Sorial parlare del ciclo di Frenkel qualche piccolo afflato di speranza l'ha dato.
Nulla di più.
Due i cavalli di battaglia della politica economica attuale secondo il M5S, il referendum consultivo sull'Euro e la violazione, come sforamento verso l'alto, del 3% quale vincolo deficit/PIL imposto dai vincoli UE.
Sul referendum ho già detto a suo tempo come la penso e, per portare ulteriori spunti di riflessione, segnalo l'odierno articolo di Paolo Becchi su Il Fatto Quotidiano.
In sintesi possiamo dire che definita la linea politica di uscire dall’€uro allora, a mio avviso, non occorrono più consultazioni che sono solo una gravissima perdita di tempo nel frenetico evolversi della politica internazionale.
Per me il M5S dovrebbe fare come ha efficacemente fatto la Lega, ma sappiamo pure che sentirsi superato da Salvini per Grillo sarebbe da psicoanalisi, quindi non si accoderà al Carroccio e perderà altri voti, va da sé.
Il secondo punto è la dimostrazione che il ciclo di Frenkel non va solo letto o copia-incollato, va anche capito, e il M5S non l'ha capito.
La crisi è di debito privato, le politiche di austerity tagliano i redditi per ridurre le importazioni, la domanda scende, si perdono i posti di lavoro e si abbassano i salari come unica via per rilanciare competitività, quindi, se rimani sotto il 3% ci impoveriamo tutti, se sfori il 3%, aumenti il debito pubblico e rilanci al rialzo l'indebitamento privato verso l'estero perché i soldi in più andranno spesi, nella loro quasi totalità, nei beni esteri che, in regime di moneta unica sono più convenienti (come correttamente osservato dall'ottimo dott. Varone nell'incontro).
Appare lapalissiano che non c'è soluzione alla crisi dell'€uro e bisogna venirne fuori subito, in tal senso, ribadisco, il referendum è un errore imperdonabile e, visti i tempi necessari, un modo malizioso per mantenere lo status quo.
Mi limito soltanto a ricordare, poi, l'incostituzionalità dei trattati Europei con la nostra Costituzione e il conflitto all'interno della stessa creato con la modifica dell'articolo 81 rispetto all'articolo 47, di tutto ciò il M5S non fa' menzione...fatti loro.

Mentre il M5S si avvolge su sé stesso, nella sua incapacità o convenienza (di chi?) di leggere lo scenario, cosa potrebbe accadere nell'immediato futuro?

L'ipotesi di rabbioso tramonto dell'Euro è condivisibile.

L'euro, nel suo tramonto di rabbia (verso l'umanità), continuerà a costituire il mezzo di normalizzazione del lavoro-merce, divorando le Costituzioni democratiche.

I cambio-opinione e parziali o totali in atto (Zingales, Fassina, etc.) sono sempre più numerosi, chi prima era un paladino del "Ce lo chiede l'Europa" ora invece asserisce "l'insostenibilità dell'Euro", ciò segnala che il momento dello €uro-break è più vicino e come sponsor abbiamo la grande potenza USA.

Gli USA con il loro assenso (ultra-liberista) hanno contribuito a rendere possibile la creazione dell'€-zona, ora però non la reggono più per gli evidenti e insostenibili problemi che l'ordoliberismo europeo ha creato al suo interno e che sta ribaltando all'esterno.

Messaggio chiaro e tondo di Jacob Lew segretario al Tesoro USA:
«Il mondo - ha accusato Lew - conta sull’economia americana per trainare la ripresa globale. Ma l’economia internazionale non può prosperare solo contando sul fatto che gli Stati Uniti sono gli importatori di prima e ultima istanza, né può sperare che la nostra crescita basti a compensare la debole crescita nelle altre grandi economie mondiali».
Qui la relativa analisi tecnica.

Usando le parole di Luciano Barra Caracciolo:
"L'euro stesso può essere sacrificato se si rivela inevitabilmente dominato dalla recalcitrante Germania mercantilista, anche se la cosa potrebbe risultare difficile, ormai. 
Ma la questione OMT (cioè la legittimità secondo i trattati e, ancor più, secondo il giudizio della Corte costituzionale tedesca, del "whatever it takes" di Draghi), e la conseguente imminenza della relativa sentenza della Corte europea, potrebbero costituire un provvido "tana libera tutti", e portare dall'insostenibilità dell'euro-zona al nuovo orizzonte del rilancio liberoscambista-TTIP (di cui abbiamo parlato un anno fa), ma...dal volto "umano (...semplicemente un pochino meno disumano).
Cioè al rabbioso tramonto dell'euro."

Quindi via l'€uro e in arrivo, a breve, il TTIP (Transatlantic Trade & Investment Partnership) e il TISA (Trade in Services Agreement).

In conclusione:
"In fondo la questione dell'euro va vista solo su questo piano: uscirne per rimanere nel dominio incontrastato dei "nipotini di Von Hayek" (i crucchi) è un'operazione di facciata.
Una beffa.
Uscirne per ripristinare la sovranità dei diritti, costituzionale e universalistica, è la vera frontiera della democrazia."

Cercasi disperatamente una forza politica che faccia della Costituzione Italiana (non modificata) la sua ratio, capace di guidare il Bel Paese all'adesione ai pessimi, deprecabili, ultra-liberisti quanto inevitabili accordi di matrice americana, limitandoli per salvaguardare gli interessi nazionali da troppo tempo abbandonati.



Addendum delle 16:05:
Una incredibile Boldrini commettendo un reato contro la Costituzione dichiara:

L'art. 11 della Costituzione dice invece:
"L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo."
Tra limitazioni e cessioni c'è il reato.
Chi difende la Costituzione?

venerdì 14 novembre 2014

LA STAGNAZIONE ITALIANA: LA NECESSITÀ DI CONDIVIDERE IL PESO

Grazie a "Voci dall'estero" pubblico un ragionevole punto di vista di Dean Baker sulla situazione economica italiana.


Su Insight  un articolo di Dean Baker notevole per la sua onestà intellettuale: l’autore ammette senza falsa retorica che la disoccupazione prolungata è un obiettivo della Commissione UE per abbassare i salari e riportare la competitività, e che la logica dell’economia imporrebbe al nostro paese di uscire dall’euro; ma visto che per motivi politici questa soluzione non risulta praticabile, cerca di proporre strade alternative per abbassare i prezzi che non pesino sempre e solo sui lavoratori.

 di Dean Baker
Non vi può essere dubbio che il problema principale dell’economia italiana è la mancanza di domanda. Quando le bolle immobiliari che stavano guidando la crescita delle economie della zona euro sono scoppiate nel 2008, non c’era nulla con cui sostituire questa fonte di domanda. L’Italia si è unita agli altri paesi della zona euro e di tutto il mondo nell’utilizzare degli stimoli fiscali per stimolare la domanda, ma poi nel 2010 è stata costretta a tornare all’austerity.
La sua economia da allora sta calando, come previsto dai manuali di economia keynesiana. Si prevede che nel 2014 il Pil sarà quasi il 9,0 per cento in meno rispetto al picco del 2007. Secondo le proiezioni del FMI, che sono sempre state troppo ottimistiche, nel 2019 il PIL italiano sarà ancora del 3,5 per cento al di sotto del livello del 2007. Questo vorrebbe dire dodici anni di crescita cumulata negativa, una performance di gran lunga peggiore di quanto accaduto in qualsiasi grande paese nella Grande Depressione.
La contrazione dell’economia è stata disastrosa per i lavoratori italiani. Il tasso di occupazione dei lavoratori di età tra i 25 e i 54 anni è sceso di quasi sei punti percentuali. Il tasso di occupazione giovanile è calato di dieci punti percentuali, il che si traduce in tassi di disoccupazione giovanile di quasi il 40 per cento.
Naturalmente la sofferenza dei lavoratori è la strategia. Il piano studiato per l’Italia dalla Commissione Europea è che l’Italia riguadagni competitività con la Germania forzando verso il basso i salari. Un periodo prolungato di alta disoccupazione è una parte essenziale di questo processo.
Da un punto di vista di semplice logica economica, l’Italia non ha altra scelta che recuperare competitività, a meno di un cambiamento di politica da parte della Commissione UE. L’Italia può indebitarsi solo nella misura consentita dalla Commissione, e questo richiede il rispetto delle politiche di bilancio che chiede la Commissione.  Dati questi vincoli, uscire dalla zona euro avrebbe chiaramente per l’Italia un senso economico.  Le consentirebbe di ripristinare rapidamente la competitività abbassando il valore della propria valuta rispetto all’euro, tuttavia per motivi politici questa soluzione non sembra praticabile.
Se l’Italia non può perseguire una politica macroeconomica ragionevole all’interno dell’euro, e non può, per motivi politici, lasciare l’euro, allora non ha grandi prospettive. Tuttavia, si può fare del proprio meglio anche in una brutta situazione.
Chiaramente l’intento della Commissione europea è quello di imporre il peso dell’aggiustamento sui lavoratori italiani. Ma la logica dell’aggiustamento non richiede che siano i lavoratori a sopportarne il peso, o almeno non da soli. L’Italia deve ridurre il suo livello di prezzi interni rispetto al livello dei prezzi in Germania. Le autorità della zona euro vorrebbero vedere i prezzi abbassarsi in conseguenza dell’abbassamento dei salari reali, ma anche la riduzione  di altre spese può aiutare ad abbassare i prezzi in Italia.
I costi più ovvi sarebbero quelli delle abitazioni. L’Italia non ha avuto lo stesso tipo di bolla immobiliare degli Stati Uniti o della Spagna, ma i prezzi delle case sono aumentati rapidamente in rapporto ai salari, agli affitti, e a tutti gli altri metri di misura. Gran parte di questo aumento è rientrato, ma i prezzi delle case sono ancora notevolmente più alti rispetto al reddito di quanto non fossero nella media degli ultimi quattro decenni. Ciò suggerisce la possibilità di ulteriori riduzioni, che potrebbero tradursi in un notevole risparmio per i lavoratori, sotto forma di affitti più bassi.
Un modo per fare pressione al ribasso sui prezzi è quello di tassare le proprietà sfitte. Unità abitative che rimangano vuote per più di un certo limite di tempo (ad esempio 3 mesi) potrebbero essere soggette a una tassazione punitiva. Ciò da un lato aumenterebbe le entrate in modo relativamente progressivo e farebbe pressione sui proprietari perché affittassero o vendessero le loro case, riducendo così il prezzo delle abitazioni. (Come bonus aggiuntivo, le case vacanza di proprietà estera possono essere soggette all’imposta.)
Tale imposta è relativamente facile da implementare poiché il governo ha già i documenti fiscali sulla proprietà e il suo valore stimato. Inoltre, anche gli sforzi per eludere l’imposta hanno l’effetto desiderato in quanto aumentano il costo di tenere di una casa sfitta.
I benefici potenziali di una pressione al ribasso sui prezzi anche modesta sono notevoli. Se l’abitazione rappresenta il 25 per cento della spesa per consumi, e una tassa sulle abitazioni sfitte può ridurre i costi medi delle case anche di appena il 4 per cento, questo sarebbe l’equivalente di un aumento del salario reale di 1,0 punto percentuale. Naturalmente molti dei proprietari colpiti da questa imposta non saranno ricchi, ma l’Italia non ha opzioni che non comportino un male per le persone non ricche. E considerati come categoria, non c’è dubbio che i proprietari di case sono più ricchi dei lavoratori. Certamente questo percorso per la riduzione del livello dei prezzi è migliore rispetto a forzare un altro punto percentuale di calo del salario reale.
Un’altra possibilità per un calo dei prezzi è l’industria farmaceutica. Secondo l’OCSE, nel 2012 l’Italia ha speso € 23,1 miliardi di euro, pari all’1,7 per cento del PIL, in prodotti farmaceutici e altri prodotti medici non durevoli. Molto meno che negli Stati Uniti, dove alle case farmaceutiche sono concessi monopoli di brevetto illimitati, ma è probabilmente ancora più di due volte tanto quello che il paese pagherebbe se le medicine fossero disponibili al prezzo di libero mercato.
Ci sono dei limiti su quanto l’Italia possa spingersi nel deprimere i prezzi dei medicinali, ma certamente dovrebbe far pressione su questi limiti. Anche in questo caso, l’alternativa è una maggiore pressione al ribasso sui salari reali. Inoltre, il sistema dei brevetti è un meccanismo antiquato, inefficiente e corrotto per finanziare lo sviluppo del settore. Se l’Italia potesse contribuire a dare una spinta verso alternative più efficaci, farebbe al mondo un servizio enorme.
Allo stesso modo, l’Italia spende miliardi ogni anno in pagamenti per il software di Microsoft, per i film di Hollywood, per i videogiochi protetti da copyright, e per la musica registrata. Ha degli obblighi derivanti da trattati che richiedono di rispettare i diritti d’autore, ma c’è un enorme spazio per una certa discrezionalità in materia. Ad esempio, non c’è ragione perché la protezione del diritto d’autore della Disney su Mickey Mouse debba essere una priorità in materia di applicazione della legge più alta del riscuotere imposte arretrate da milionari e miliardari che derubano il popolo italiano. (Questa discrezionalità verrebbe probabilmente erosa dalle disposizioni del Trans-Atlantic Trade and Investment Pact.)
Questo elenco indica alcune delle aree in cui vi sono delle rendite sostanziali che potrebbero essere individuate come un modo per ridurre i prezzi in Italia. Indubbiamente ci sono molte altre aree. Prendere di mira i percettori di alti redditi da locazione non sostituisce una buona politica macroeconomica, ma questa buona politica è preclusa dalla troika e dalla realtà della politica italiana. La questione diventa quindi il percorso migliore da seguire dati i vincoli macroeconomici esistenti.
Certamente una politica che cerchi di compiere la deflazione prescritta dalle autorità dell’Eurozona riducendo queste e altre rendite che affluiscono principalmente alle persone ad alto reddito è meglio che realizzare la deflazione attraverso dei tagli salariali ai lavoratori ordinari. Inoltre, se la sofferenza in Italia è condivisa da potenti società come Microsoft e Pfizer, questo potrebbe aiutare la troika a riconsiderare la saggezza delle sue politiche.

Insight è un centro di documentazione online del CISS (Centro Internazionale di Studi Sociali), istituto specializzato nell’analisi dei mutamenti istituzionali, economici e sociali derivanti dalla costruzione dell’Unione Europea e, più in generale, delle tendenze in atto nei processi di globalizzazione, con particolare riferimento ai cambiamenti nel mondo del lavoro.

Dean Baker è co-direttore del Center for Economic and Policy Research (CEPR). Ha lavorato per la Banca Mondiale, il Joint Economic Committee del Congresso degli Stati Uniti, e per il Trade Union Advisory Council dell’OCSE. Il suo ultimo libro è “The End of Loser Liberalism: Making Markets Progressive”

Traduzione di Carmenthesister (Carmen Gallus)

giovedì 13 novembre 2014

CIA, BILDERBERG, BR, BRITANNIA: ECCO A VOI LA VERA STORIA ITALIANA di Nino Galloni

Pubblico un interessante articolo di Nino Galloni che ci parla dell'ultimo trentennio della vita politico-economica in Italia. 




Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo:impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi, l’Italia.
A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
È la drammatica ricostruzione di Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato.
All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, finche potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco.
Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli (facenti anche loro parte del gruppo Bilderberg) e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».

Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”.
E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima» (Kissinger è anche l’assassino di Salvador Allende).
Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provvedutola strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico.Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiatche di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione» (il piano lo stà ultimando Renzi con il suo Job Acts). Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale».
Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici».
E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.
Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni.
Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».
Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».
Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.
Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti.
«Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».
Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista.
L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare a casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa,tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia.
Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».